Nella nostra società, nella quale l’inglese è ormai onnipresente, vedere queste due parole “I care“, non provoca una grande meraviglia. Ma proviamo a fare un salto nel tempo e ad andare a Barbiana, un piccolo villaggio inmmerso tra le montagne toscane, negli anni ’50. Una volta raggiunta la scuola del paese avremmo visto un cartello che riportava esattamente queste due parole scritte in rosso. Il messaggio rappresentava quasi un messaggio di benvenuto che accoglieva quanti volessero entrare nell’edificio, ma la loro valenza simbolica e la loro portata erano e sono molto più rilevanti. L’autore di quel messaggio era Don Lorenzo Milani, un sacerdote innovatore e illuminato che, attraverso quelle due parole, secondo lui intraducibili, è riuscito a far cambiare la visione e la missione della scuola e non solo.
Attraverso il concetto di “avere a cuore, interessarsi”, infatti, Don Milani è riuscito a ribaltare l’atteggiamento dell’ “I don’t care”, quel “non mi interessa” che non era solo una delle espressioni che hanno caratterizzato il pensiero e, quindi, la società del periodo fascista, ma che, in un certo senso, sta diventando anche il leitmotiv del nostro mondo. Questa profonda trasformazione, non è solo una mera questione linguistica, ma una realizzazione concreta della missione che il sacerdote attivuiva all’istituzione scolastica e, più in generale, a tutti gli educatori: interessarsi agli studenti che la scuola cosiddetta “tradizionale” non considerava a causa dei loro limiti e della loro condizione sociale, avere a cuore non solo la loro formazione e il trasferimento di conoscenze teoriche, ma l’educazione delle future generazioni nel senso più ampio del termine. Fornire ai giovani un bagaglio di competenze che esulasse dal sapere e si avvicinasse sempre di più all’essere, al saper fare o, ancora meglio, al saper pensare.
Il fondamento dell’insegnamento impartito da Don Milani, infatti, esulava dal pedissequo rispetto di griglie di valutazione predefinite o standardizzate e di programmi imposti dall’autorità; il primo aspetto che il sacerdote ha cercato di trasmettere ai suoi studenti è stato il pensiero critico. Attraverso la visione obiettiva della realtà circostante e l’analisi di come tale realtà veniva raccontata dai mezzi di informazione, Don Milani è riuscito ad insegnare ai suoi studenti a pensare con la propria testa e a dare il giusto peso ai diversi stimoli provenienti dal mondo esterno. Questo è stato senz’altro un approccio innovativo per l’epoca e, per certi versi, lo sarebbe anche all’interno del sistema scolastico attuale, nel quale il rapporto umano tra docente e studenti è sempre più fortemente gerarchizzato, facendo perdere la dimensione umana dell’insegnamento.
Visto da questo punto di vista, quel “I care” che ha caratterizzato l’azione formativa di Don Milani permette di superare le barriere invisibili che spesso separano chi sta dietro alla cattedra da chi sta dietro i banchi. “I care” diventa allora un sinonimo di “per te ci sono”, “sono al tuo fianco”, “puoi contare su di me”. E non è forse questa la chiave che permette di aiutare i ragazzi che, nella scuola di stampo tradizionale, riscontrano le maggiorni difficoltà? Non è forse l’empatia e la creazione di un rapporto di fiducia che costituisce un alleato essenziale nel perseguimento di qualsiasi obiettivo educativo e formativo? E non è forse il passaggio dallo studio imposto allo studio come attività di arricchimento sia per l’insegnante che per lo studente che trasforma un’attività spesso odiata in qualcosa di piacevole e in un’occasione di condivisione?
Negli ultimi anni si è parlato sempre più spesso di concetti come “corresponsabilità educativa” o di “alleanza educativa” tra scuola e famiglie, ma forse si è perso di vista ciò che Don Milani aveva capito già 60 anni fa: il primo patto educativo nasce nelle aule e consiste nella creazione di una relazione umana tra docente e studente che sia sincera, priva di pregiudizi e preconcetti e basata sul rispetto reciproco. Con il suo “I care“, Don Milani lanciava un messaggio alla scuola del suo tempo: il fulcro dell’azione di ogni insegnante non dev’essere lo svolgimento del programma, ma la valorizzazione delle potenzialità di chi ha di fronte. Ogni studente che incontriamo sul nostro cammino ha dei punti di forza di cui spesso non è neppure consapevole; siamo noi docenti ed educatori che possiamo e dovremmo sostenerli e facilitare questa ricerca.
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